Vreid – “Pitch Black Brigade” (2006)

Artist: Vreid
Title: Pitch Black Brigade
Label: Tabu Recordings
Year: 2006
Genre: Black Metal
Country: Norvegia

Tracklist:
1. “Då Draumen Rakna”
2. “Left To Hate”
3. “Pitch Black”
4. “The Red Smell”
5. “Hengebjørki”
6. “Our Battle”
7. “Hang ‘Em All”
8. “Eit Kapittel For Seg Sjølv”

Nei rari casi in cui dalle lastre bianche della tragedia sboccia la primavera di un fiore, non di rado si dimostra essere al contempo proprio quello graziato dai petali del colore più unico, quello avvolto dalla fragranza più intensa, dal profumo più resistente e dalla foggia più spettacolare di tutto il mazzo una volta raccolto; in buona sostanza quello che, con la sua bellezza dirompente, fa impallidire di vergogna ed inferiorità manifesta i suoi ciononostante pregiati simili.
All’inizio del 2006, dei Vreid eredi spirituali e materiali del testimone artistico di ciò che soltanto una decina di anni più tardi sarebbe stato riconosciuto e definitivamente etichettato dalla critica e dalle stesse band della regione come Sognametal, sono puntualmente chiamati a confermare le buone impressioni già lasciate con l’arrabbiato, cattivissimo debutto nel 2004 intitolato “Kraft” e creato inevitabilmente a metà strada fra due percorsi distinti ma in un certo natural modo contigui – la forza inalterata ed omonima della disperazione bieca, riversata a cascata e con urgenza nella scrittura, nell’essere moralmente costretti a ripartire da zero dopo una perdita che (per una volta, e finalmente con il beneficio asettico ma galante del tempo, lo si consideri pure) è duplice, tanto umana e fraterna quanto creativa, quella di un figlio adottivo per anni amato non meno del padre biologico e portato ad essere ciò che è divenuto in “1184” e “Likferd” tramite uno spesso irriconosciuto sforzo collettivo. E i sopravvissuti finiscono, con l’istinto primordiale della sopravvivenza che non può essere domata da una sciagura materiale, ma anzi usato come negativo spunto creativo di una tempra prossima allo svelarsi nella sua totalità, per concretizzare con la composizione e la pubblicazione del fondamentale “Pitch Black Brigade” molto più di un semplice passo in avanti in un percorso ancora nuovo e pieno di potenziali ostacoli, di un futuro ignoto ed incertezze ai blocchi di partenza.

Il logo della band

Quella che è ufficialmente anche una delle ultime pubblicazioni di Tabu Recordings prima dei finali singhiozzi di vita tra il 2007 ed il 2009 (ma che rinascerà da una sua costola giusto l’anno successivo nelle vesti della ben più longeva e successuosa Indie Recordings, sempre partner del quartetto norvegese fino a “Sólverv” oltre che fondamentale negli sviluppi di metà carriera degli Enslaved, che li porteranno dritti in major, e dell’affermazione mondiale dei Kampfar con il trittico da “Djevelmakt” alla conquista dell’Europa, nonché del lancio degli oggi ancor più celebri Wardruna) diventa infatti, in primo luogo, la battaglia personale più importante ad oggi mai combattuta dai Vreid; sicuramente non la più remunerativa in termini assoluti di successo sul campo inventivo, fortunatamente lontana infatti dal tradursi nel loro miglior album universalmente parlando, ma del resto quella che per prima e più di ogni altra definisce, in un colpo solo e perfettamente mirato verso un bersaglio centrato alla perfezione, sia la matrice per il futuro sound del gruppo che la tendenza evolutiva che porterà i quattro a successi sempre più estrosi e vertici sempre più alti praticamente in ogni successivo album: tanto nel pristino “V” quanto in “Lifehunger” o anche solo nel più prossimo “Milorg” che è, per molti versi, chiusura di un ciclo narrativo incominciato proprio con “Pitch Black Brigade”.
Ma il combattimento più grande, come spesso accade, è con sé stessi: in ciò i Vreid operano, da qui, una rivoluzione estetico-poetica intelligentissima, che sposta il suo focus storico dai guerrieri norvegesi di un’altra età, rivisitata con il romanticismo popolare e cronistico proposto insieme a Valfar, a quelli moderni, sotto un cielo ormai divenuto pallido; quelli combattenti al fronte o morenti tra le acque ghiacciate dei fiordi, sul treno di una guerra sia mentale che militare, passando tramite le seducenti malvagità della macchina totalitaria che viene innanzitutto affrontata, tematicamente, con una finezza psicologica approfondita da lenti ambivalenti e moralmente ambigue come si conviene ad un genere che fa dell’osservazione distante, della ricerca e della considerazione più estrema il suo motore vitale (l’intelligenza profonda del testo di “Left To Hate” sia un solo ma non ultimo esempio), per finire a riflettere sull’illusione di verità creata dai vincenti, analizzando nel farlo l’interessante processo di pulsioni, sogni, paure inconfessabili all’interno della coesa massa omogeneamente grigia e reconditi istinti collettivi sospesi, congelati nel tempo fra tra divieto, negazione e menzogna.

La band

Proprio nei solchi delle otto velenose tracce che compongono il fluire compatto e marziale dall’esterno ed estremamente variegato all’interno di “Pitch Black Brigade”, Hváll, Sture, Steingrim ed il nuovo secondo chitarrista Ese (l’unico fin dal debutto di due anni prima non legato ai tre dalla pregressa e fondativa esperienza Windir) si liberano quindi, senza por tempo in mezzo e totalmente, dal pesante fardello di essere il gruppo immediatamente nato dalle ceneri del fisiologico scioglimento di una band tanto amata quanto a quel punto già entrata nella leggenda: da un lato, viene esasperato il carattere più estremo, stentoreo e tirato della maligna “On The Mountain Of Goats” che fu calco per gran parte di “Kraft” (tanto nell’apertura urticante di “Wrath Of Mine”, quanto nei picchi di “Eldast, Utan Å Gro”), ora ancor più squisitamente personale, filtrato nell’ottica storica contemporanea e di eroica resistenza nazionale tra i ghiacci perenni di “The Red Smell”, così come le intuizioni canzonate e proto-Black ‘N’ Roll della cassa in quarti di “The Spiritlord” (già forti ma acerbe in “Raped By Light”, “Evig Pine” ed “Unholy Water”) vengono finalmente riprese ma disciplinate, rese ferrate, uncinate non solo negli sprazzi bassistici tributo malcelato ai Motörhead come quello che apre “Left To Hate” ma innervanti in toto il sapore di gran parte se non tutte le composizioni; quel che ne emerge è una nuovissima manifestazione di Black ‘N’ Roll selvaggio che, come dimostrano il freddo del vero e proprio anthem -ve ne fosse mai uno, questo è- “Pitch Black” o l’incalzare dell’ancor più dispettosa “Hang ‘Em High”, si stacca anche da qualunque similare tentativo coevo occhieggiante più al passato che non al presente (i Darkthrone del gemellare “The Cult Is Alive” su tutti) creando un precedente di freschezza inedita e di stile unico. In una linea rossa e diretta che parte dunque dagli attacchi di nero battente o di sangue, fuoco e morte dei seminali Nifelheim e degli Aura Noir di fine anni ‘90, passando sia per l’irriverenza ritmica dei Carpathian Forest di “Black Shining Leather” che per la tecnica erosiva in mostra negli Immortal di inizio millennio, come per i rallentamenti spettrali dei Tulus e poi dei Khold (“Helvete”, nel precedente full-length), o dei Satyricon dello spartiacque “Volcano”, i Vreid di “Pitch Black Brigade” coniugano in uno scheletro nuovo una pletora di sensazioni dal retroterra squisitamente norvegese o scandinavo comune. Non ultime per importanza, in quest’ottica, sono quelle elettroniche che già furono di “Journey To The End” e che qui, probabili figlie d’ascolto Massive Attack (estremamente influenti in patria fin dalle produzioni ed evoluzioni di Arcturus ed Ulver tra il 1997 ed il 1998), si manifestano con incursioni strutturali ma finissime in episodi come le stratificate e non a caso più lunghe “Hengebjørki” (la cui dinamicità è ancora oggi un episodio nodale nel percorso Vreid tutto) e la conclusiva “Eit Kapittel For Seg Sjølv” (un picco di eleganza e ricercatezza seriamente caleidoscopica al suo interno), malleando, con un’abilità compositiva di una naturalezza che già nel 2006 ha dello strabiliante per tessitura melodica ed arrangiamento specialmente delle metriche vocali, un risultato che migliora ogni aspetto ancora spigoloso nel debutto elevandolo alla potenza quadrata e riempiendolo di una spinta sperimentale e di ambizioso coraggio: tra rincorse al plutonio (“Då Draumen Rakna”) e chitarre dai toni abrasivi e corrosivi qualunque cosa facciano, non solo emerge finalmente il gusto Heavy sospeso tra passato e presente degli slanci solistici -pezzi minimi ma irrimpiazzabili di un’armata indistruttibile- ad opera dell’ancora disertore Strom su “Left To Hate” e “The Red Smell”, ma quello di una vena tutta progressiva e armonica forte e cristallina, matura qui per la prima volta in un songwriting squisito, anche più che negli ultimi rilasci dei Windir.

Il secondo capitolo nella vittoriosa discografia della brigata nero pece è quindi non solo, in retrospettiva, un vero classico moderno per il suo stile, per quel Black ‘N’ Roll che (distante dall’essere etichettato o riconosciuto, solo più tardi semanticamente mutuato da quel Death ‘N’ Roll di dieci anni prima dei divisivi Entombed in “Wolverine Blues”) non è dunque in quel momento ancora precisamente codificato nel linguaggio del genere anche solo come riferimento universale – e di cui i Vreid, eredi di una forma mentale ben più importante della maniera, si pongono quindi come autentici pionieri contemporanei in smaccata opposizione al grande successo privo d’inventiva di Tsjuder, 1349 e di tutta quella corrente che bagna di tendenze già revivalistiche o di sterile, ostentata purezza i territori norvegesi e tedeschi del Black Metal nel primo lustro del millennio corrente, limitantesi però a riempire un buco: a sopperire ad una domanda femelica  di ascoltatori rimasta senza risposta perché orfana della violenza primordiale e comunque fisiologicamente irripetibile dei suoi progenitori. Ma forse, ancor più importantemente, “Pitch Black Brigade” è il disco che più di altri il gruppo di Sogndal aveva la pura necessità, il prurito artistico quasi, di creare per sé stesso e solo di conseguenza rilasciare, condividendolo col mondo: quello di uno spazio vuoto e malinconico che non sarebbe mai più potuto, ad ogni modo, essere riempito – tra caos e distruzione militarizzata, sirene d’allarme e richiamo all’assalto patriottico che suonano nell’aria piena di fumi neri facenti accarezzare l’Inferno come un sogno auspicabilmente agrodolce al confronto, in mezzo a vetri rotti come rasoi, sporcizia spirituale e rettitudine, miseria e percussioni marziali suonate con disciplina cadaverica fredda più del ghiaccio. Dal passato glorioso al presente inquietantemente reale s’inserisce pertanto una svolta, il primo cruciale tassello di una raffinata trilogia bellica dalla caratura finissima che avrebbe portato, con le sue importanti sfaccettature, dritto alla realizzazione filosofica di cui sarà intriso poi il quinto full-length di una band che nel 2006 -fortuna dell’ascoltatore- è ancora estremamente inquieta e ben lontana dall’aver fatto pace con il suo allora recente passato.

“Tyranniet har mange sider
Dei demokratiske sjeler hedvar dei frigjer
Men aldri før har eg følt meg so åleine
Ein gjest i eit land som før var heima…”

Matteo “Theo” Damiani

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